Condividi:
|
|
Repubblica - edizione di Parma
22 Febbraio 2018
Impronte: la collana di poesia prende forma a Parma
Otto volumi che riuniscono prospettive poetiche di autori provenienti da realtà fra loro distanti
di LUCIA DE IOANNA
”Per chi si sforza di dare espressione al proprio interno, l'arte non è qualcosa che attenga alle scienze umane, ma qualcosa di fisico, come l'impronta digitale”
Gottfried Benn
La collana di poesia Impronte, nata alcuni anni fa a partire da un concorso letterario nazionale indetto dall'associazione culturale Tapirualn e giunto quest'anno al traguardo della decima edizione, è stata presentata a Parma in un incontro organizzato nella biblioteca Guanda nel corso del quale è stato possibile ascoltare alcune poesie scelte entro un vivace dialogo, ricco di riflessione, con il professor Paolo Briganti, docente di Letteratura italiana contemporanea presso l'ateneo di Parma, direttore della collana Impronte oltre che presidente della giuria del concorso.
Presenti all'incontro Fabio Toninelli, fondatore di Tapirulan (casa editrice oltre che associazione culturale che promuove anche un concorso di racconti, di illustrazione e di fotografia) e Lorena Montini, segretaria del premio, lei stessa autrice di poesie.
Le distanze da colmare non sono state un ostacolo per i poeti che hanno preso parte a questo prezioso appuntamento di apertura della poesia alla città e di confronto tra le diverse impronte, di stile e di pensiero, che connotano la produzione di ciascun autore: Roberto Minardi è giunto dall'Inghilterra mentre Vincenzo Maria Oreggia ha dovuto spostarsi di continente, giungendo a Parma dall'Africa.
Solo due gli autori parmigiani, per una collana di poesia che, in otto volumi, molto curati anche sul piano della grafica, riunisce prospettive poetiche di autori provenienti da realtà fra loro distanti.
Alberto Manzoli, poeta parmigiano, è il primo autore pubblicato, nel 2011, nella collana Impronte con la silloge “La cruna dell'ago” introdotta da una prefazione critica di Giuseppe Marchetti. “La poesia di Manzoli”, osserva Briganti, “si connota per la sua poematicità, per la capacità di raccontare.” Versi affidati a monologhi che hanno origine da diversi personaggi i quali, afferma Manzoli, dettano il loro discorso all'autore che si limita a prenderne nota.
Una discorsività sostenuta dall'argine di una metrica precisa, affidata all'endecasillabo, guardando nella direzione della poesia anglosassone che, come afferma Manzoli, “nel suo tono discorsivo e semplice, tenta di restituire la cosa com'è.”
Echi montaliani ne “L'uomo che non parla con gli altri” si avvertono nella fiducia dichiarata verso una realtà che non si vede, nella lucida visione della 'pienezza del male' che coesiste con la possibilità di un miracolo 'già sufficiente' offerto dalla bellezza nella rapida epifania di una lepre nella luce del mattino, come si legge in questi versi:
Ascoltatemi voi - si fa per dire -
ora ascoltate quello che non dico:
credo nell’estinzione della carne,
nella pienezza del male, nel nulla
che è ancora meno nulla della vita.
Io la chiamo Entropia, ma voi potete
chiamarla solitudine, alcolismo,
abiti puzzolenti e rotti, tanto
che ne capite voi di certe cose
in questa orribile taverna dove stiamo.
Ma i miei occhi hanno visto la lepre
abbeverarsi al sole del mattino
nei prati oltre il canale della Brea,
ho avuto la mia parte di bellezza
ed è miracolo già sufficiente;
la luce inganna i miei occhi e io credo
a tutto ciò che non riesco a vedere,
io credo solo a ciò che non esiste.
Nel 2013 il concorso si arricchisce di una significativa novità: oltre alla sezione per le poesie singole viene inaugurata una sezione per le sillogi: vincitori ex aequo risultano Matteo Pelliti e Raffaele Sabatino, dei quali vengono pubblicate, rispettivamente, le raccolte “Malerbe” e “Boicottando ghigliottine e mongolfiere”.
22 Febbraio 2018
Impronte: la collana di poesia prende forma a Parma
Otto volumi che riuniscono prospettive poetiche di autori provenienti da realtà fra loro distanti
di LUCIA DE IOANNA
”Per chi si sforza di dare espressione al proprio interno, l'arte non è qualcosa che attenga alle scienze umane, ma qualcosa di fisico, come l'impronta digitale”
Gottfried Benn
La collana di poesia Impronte, nata alcuni anni fa a partire da un concorso letterario nazionale indetto dall'associazione culturale Tapirualn e giunto quest'anno al traguardo della decima edizione, è stata presentata a Parma in un incontro organizzato nella biblioteca Guanda nel corso del quale è stato possibile ascoltare alcune poesie scelte entro un vivace dialogo, ricco di riflessione, con il professor Paolo Briganti, docente di Letteratura italiana contemporanea presso l'ateneo di Parma, direttore della collana Impronte oltre che presidente della giuria del concorso.
Presenti all'incontro Fabio Toninelli, fondatore di Tapirulan (casa editrice oltre che associazione culturale che promuove anche un concorso di racconti, di illustrazione e di fotografia) e Lorena Montini, segretaria del premio, lei stessa autrice di poesie.
Le distanze da colmare non sono state un ostacolo per i poeti che hanno preso parte a questo prezioso appuntamento di apertura della poesia alla città e di confronto tra le diverse impronte, di stile e di pensiero, che connotano la produzione di ciascun autore: Roberto Minardi è giunto dall'Inghilterra mentre Vincenzo Maria Oreggia ha dovuto spostarsi di continente, giungendo a Parma dall'Africa.
Solo due gli autori parmigiani, per una collana di poesia che, in otto volumi, molto curati anche sul piano della grafica, riunisce prospettive poetiche di autori provenienti da realtà fra loro distanti.
Alberto Manzoli, poeta parmigiano, è il primo autore pubblicato, nel 2011, nella collana Impronte con la silloge “La cruna dell'ago” introdotta da una prefazione critica di Giuseppe Marchetti. “La poesia di Manzoli”, osserva Briganti, “si connota per la sua poematicità, per la capacità di raccontare.” Versi affidati a monologhi che hanno origine da diversi personaggi i quali, afferma Manzoli, dettano il loro discorso all'autore che si limita a prenderne nota.
Una discorsività sostenuta dall'argine di una metrica precisa, affidata all'endecasillabo, guardando nella direzione della poesia anglosassone che, come afferma Manzoli, “nel suo tono discorsivo e semplice, tenta di restituire la cosa com'è.”
Echi montaliani ne “L'uomo che non parla con gli altri” si avvertono nella fiducia dichiarata verso una realtà che non si vede, nella lucida visione della 'pienezza del male' che coesiste con la possibilità di un miracolo 'già sufficiente' offerto dalla bellezza nella rapida epifania di una lepre nella luce del mattino, come si legge in questi versi:
Ascoltatemi voi - si fa per dire -
ora ascoltate quello che non dico:
credo nell’estinzione della carne,
nella pienezza del male, nel nulla
che è ancora meno nulla della vita.
Io la chiamo Entropia, ma voi potete
chiamarla solitudine, alcolismo,
abiti puzzolenti e rotti, tanto
che ne capite voi di certe cose
in questa orribile taverna dove stiamo.
Ma i miei occhi hanno visto la lepre
abbeverarsi al sole del mattino
nei prati oltre il canale della Brea,
ho avuto la mia parte di bellezza
ed è miracolo già sufficiente;
la luce inganna i miei occhi e io credo
a tutto ciò che non riesco a vedere,
io credo solo a ciò che non esiste.
Nel 2013 il concorso si arricchisce di una significativa novità: oltre alla sezione per le poesie singole viene inaugurata una sezione per le sillogi: vincitori ex aequo risultano Matteo Pelliti e Raffaele Sabatino, dei quali vengono pubblicate, rispettivamente, le raccolte “Malerbe” e “Boicottando ghigliottine e mongolfiere”.
Matteo Pelliti, nato a Sarzana, laureato a Pisa, in Filosofia, con una tesi sulla grammatica del linguaggio psicologico in Wittgenstein, presenta una poesia che, con le parole di Briganti, appare “in controtendenza rispetto alla vulgata secondo la quale i versi deriverebbero da moti spontanei dell'animo: dietro le poesie che compongono la silloge c'è un progetto chiaro e unitario”, la cui matrice viene svelata dall'autore, facendo riferimento al titolo: “la raccolta è tenuta insieme da una gabbia programmatica: la scelta è stata quella di scrivere poesie a partire da parole deonimiche ossia parole di uso comune ma derivate da un nome o da un cognome, capaci di scatenare un piccolo cortocircuito linguistico”.
Poesie nate quindi a partire da un 'gioco linguistico', la cui costruzione esige il rispetto di regole all'interno delle quali è possibile trovare una espressione libera e originale di sé. E di questo gioco che è il linguaggio, Pelliti, nella poesia “Gli innominabili”, smonta l'ingranaggio cardine, quello che, in qualche modo, lega il segno al suo referente, arrivando a mostrare una coincidenza di segno e mondo di tipo magico, simile a quella nella quale credono i bambini e, spesso, i poeti:
Tralascio la grande selva
dell’eponimia medica, pagine su pagine
per decine di cognomi in forma di sindromi,
malattie dai nomi infetti,
e penso solo a quelli, furono medici,
i cui nomi persero prima di ogni altro
la neutralità referenziale
che lega nome e portatore,
per prender l’illusione che il nome proprio
esprima o sintetizzi, anticipi, i caratteri
del legittimo proprietario
(la musica di Schubert a Schubert )
in virtù di un potere magico e, qui, nefasto.
Raffaele Sabatino, autore di “Malerbe”, sua prima raccolta edita, vive a Zurigo. La sua poesia, che come nota Stefano Mazzacurati nella prefazione, “ci può richiamare, senza pretese, al senso umano della compassione”, ha origine dall'idea di fondo che la bellezza nasca, inattesa, dove meno ce la aspettiamo, da cose inutili se non dannose, e “giunge fino a noi, tra malerbe e gas di scarico, virus informatici”, cose sulle quali lo sguardo ordinario non sosta a lungo. Sguardo, quello di Sabatino, che, con le parole di Briganti, sa “recuperare precise immagini, ritagliate da una memoria privata netta, entro passati più o meno lontani, in cui le azioni dei protagonisti hanno il sapore della viva esperienza e 'significano', senza cedimenti nostalgici, un mondo, quel mondo, a ciglio asciutto.”
Malerbe
Dietro remoti anditi celati
meglio se nelle vicinanze a latere
di una stazione o di un cantiere
tra miniature di vallate, dedali
di spaccato asfalto, sopra cumuli
timidamente ingrigiti dal sole
di sassi, anche a somme latitudini
tentano provvisorie malerbe
di radicare sparute sementi
nei nostri azzimi fine settimana;
ma sono ancora filanti rette
dirittissime strade perfette
e aiuole e palazzi geometrici
e ancora ospizi uffici ospedali
prati su cui a intervalli regolari
qualcuno asperge antiparassitari.
Un tentativo di trovare il punto nel quale il passato può intersecare il presente è all'origine della poesia di Roberto Minardi, ragusano che vive in Inghilterra: nella sua raccolta, intitolata “Il bello del presente”, trova espressione, come dice l'autore, “una sorta di dialogo tra l'attuale ed i luoghi e le persone della mia terra, Ragusa: l'io poetico cerca di tornare a inserirsi in queste situazioni del passato, di un altro mondo lontano.” L'occhio della memoria rivolto alle esperienze degli anni in Sicilia produce, come osserva Briganti, “uno sguardo quasi rallentato, molto ravvicinato alle cose, con una descrizione minuta di gesti che, di per sé, dicono. L'effetto di questo occhio dilatato sulle cose è quello di un'iper-realtà nella quale i gesti e le cose mostrano il loro senso”, come in questi versi che aprono “Occhi lucidi- ride, sdentata”:
occhi lucidi – ride, sdentata.
i ricci bianchi, grigi e crespi brillano
quando sta al sole e la sua risata
vuole trasmettere allegria agli ospiti –
verso il nipote, seria, grida disgraziato.
mi stringe il collo in segno di affetto,
ci serve uova ai bordi bruciacchiate
in un terrazzo rustico, all’aperto –
un pomeriggio di beata pienezza
a consumare ciò che c’è sui piatti.
Il ritmo naturale dell'endecasillabo, assimilato da ragazzo imparando a memoria poesie che, oggi, conservate nella memoria, tornano per aiutarlo a vivere, connota la raccolta di Rodolfo Vettorello “Tu la farfalla variopinta, ed io”. L'autore ha, come afferma, “una particolare attenzione per gli aspetti formali: la poesia non è fatta solo di significati ma anche di significante e a quest'ultimo è affidato il compito di conferire ritmo a un testo, rendendolo più facilmente memorizzabile. Una poesia che si lascia ricordare entra a far parte per sempre del nostro animo e può venirci in aiuto in qualsiasi occasione. L'endecasillabo, con il suo ritmo, mi insegue e io, a volte, cerco di spezzarlo”. Le poesie di Vettorello, che ha all'attivo una vasta produzione ed è chiamato a prendere parte, in qualità di giurato, a diverse commissioni di premi letterari, come nota Briganti, sono di stampo esistenziale ponendo al loro centro, spesso, il tema dell'amore e della vita.
Anche così un amore
Anche così un amore, anche così.
Come se fosse al chiaro di una lampada
con occhi quasi opachi, d’alabastro,
ad inseguire perle di Murano
per fili colorati di collana.
E come con i conti della spesa
e documenti sparsi da archiviare
in ordine, secondo l’argomento.
Così si mette in chiaro un sentimento;
si colloca, in sordina, in un armadio
insieme a tutto quello ch’è già stato.
Anche così un amore, anche così:
a rammendare calze troppo lise
come se fosse un modo di abbracciare.
Trascorre il tempo ed ogni cosa cambia,
non il tuo modo d’essere una pietra,
la soglia della casa, l’artificio
che fa di un luogo un simbolo, un altare,
la lacrima di pianto che si muta
in manto di rugiada. Viene il tempo
che tu non ci sarai. Non ci saremo
ma ci saranno ancora lune tonde
e torneranno i voli di farfalla,
e canti nei meriggi di cicala.
Nessuno, più nessuno che ricordi
la vita spesa al lume di una lampada,
le pratiche ordinate nei dossier
e le collane in perle di Murano.
Giornale in mano, innanzi alla tv
la mia pigrizia che ti sta a guardare.
Anche così un amore, anche così.
Poesie nate quindi a partire da un 'gioco linguistico', la cui costruzione esige il rispetto di regole all'interno delle quali è possibile trovare una espressione libera e originale di sé. E di questo gioco che è il linguaggio, Pelliti, nella poesia “Gli innominabili”, smonta l'ingranaggio cardine, quello che, in qualche modo, lega il segno al suo referente, arrivando a mostrare una coincidenza di segno e mondo di tipo magico, simile a quella nella quale credono i bambini e, spesso, i poeti:
Tralascio la grande selva
dell’eponimia medica, pagine su pagine
per decine di cognomi in forma di sindromi,
malattie dai nomi infetti,
e penso solo a quelli, furono medici,
i cui nomi persero prima di ogni altro
la neutralità referenziale
che lega nome e portatore,
per prender l’illusione che il nome proprio
esprima o sintetizzi, anticipi, i caratteri
del legittimo proprietario
(la musica di Schubert a Schubert )
in virtù di un potere magico e, qui, nefasto.
Raffaele Sabatino, autore di “Malerbe”, sua prima raccolta edita, vive a Zurigo. La sua poesia, che come nota Stefano Mazzacurati nella prefazione, “ci può richiamare, senza pretese, al senso umano della compassione”, ha origine dall'idea di fondo che la bellezza nasca, inattesa, dove meno ce la aspettiamo, da cose inutili se non dannose, e “giunge fino a noi, tra malerbe e gas di scarico, virus informatici”, cose sulle quali lo sguardo ordinario non sosta a lungo. Sguardo, quello di Sabatino, che, con le parole di Briganti, sa “recuperare precise immagini, ritagliate da una memoria privata netta, entro passati più o meno lontani, in cui le azioni dei protagonisti hanno il sapore della viva esperienza e 'significano', senza cedimenti nostalgici, un mondo, quel mondo, a ciglio asciutto.”
Malerbe
Dietro remoti anditi celati
meglio se nelle vicinanze a latere
di una stazione o di un cantiere
tra miniature di vallate, dedali
di spaccato asfalto, sopra cumuli
timidamente ingrigiti dal sole
di sassi, anche a somme latitudini
tentano provvisorie malerbe
di radicare sparute sementi
nei nostri azzimi fine settimana;
ma sono ancora filanti rette
dirittissime strade perfette
e aiuole e palazzi geometrici
e ancora ospizi uffici ospedali
prati su cui a intervalli regolari
qualcuno asperge antiparassitari.
Un tentativo di trovare il punto nel quale il passato può intersecare il presente è all'origine della poesia di Roberto Minardi, ragusano che vive in Inghilterra: nella sua raccolta, intitolata “Il bello del presente”, trova espressione, come dice l'autore, “una sorta di dialogo tra l'attuale ed i luoghi e le persone della mia terra, Ragusa: l'io poetico cerca di tornare a inserirsi in queste situazioni del passato, di un altro mondo lontano.” L'occhio della memoria rivolto alle esperienze degli anni in Sicilia produce, come osserva Briganti, “uno sguardo quasi rallentato, molto ravvicinato alle cose, con una descrizione minuta di gesti che, di per sé, dicono. L'effetto di questo occhio dilatato sulle cose è quello di un'iper-realtà nella quale i gesti e le cose mostrano il loro senso”, come in questi versi che aprono “Occhi lucidi- ride, sdentata”:
occhi lucidi – ride, sdentata.
i ricci bianchi, grigi e crespi brillano
quando sta al sole e la sua risata
vuole trasmettere allegria agli ospiti –
verso il nipote, seria, grida disgraziato.
mi stringe il collo in segno di affetto,
ci serve uova ai bordi bruciacchiate
in un terrazzo rustico, all’aperto –
un pomeriggio di beata pienezza
a consumare ciò che c’è sui piatti.
Il ritmo naturale dell'endecasillabo, assimilato da ragazzo imparando a memoria poesie che, oggi, conservate nella memoria, tornano per aiutarlo a vivere, connota la raccolta di Rodolfo Vettorello “Tu la farfalla variopinta, ed io”. L'autore ha, come afferma, “una particolare attenzione per gli aspetti formali: la poesia non è fatta solo di significati ma anche di significante e a quest'ultimo è affidato il compito di conferire ritmo a un testo, rendendolo più facilmente memorizzabile. Una poesia che si lascia ricordare entra a far parte per sempre del nostro animo e può venirci in aiuto in qualsiasi occasione. L'endecasillabo, con il suo ritmo, mi insegue e io, a volte, cerco di spezzarlo”. Le poesie di Vettorello, che ha all'attivo una vasta produzione ed è chiamato a prendere parte, in qualità di giurato, a diverse commissioni di premi letterari, come nota Briganti, sono di stampo esistenziale ponendo al loro centro, spesso, il tema dell'amore e della vita.
Anche così un amore
Anche così un amore, anche così.
Come se fosse al chiaro di una lampada
con occhi quasi opachi, d’alabastro,
ad inseguire perle di Murano
per fili colorati di collana.
E come con i conti della spesa
e documenti sparsi da archiviare
in ordine, secondo l’argomento.
Così si mette in chiaro un sentimento;
si colloca, in sordina, in un armadio
insieme a tutto quello ch’è già stato.
Anche così un amore, anche così:
a rammendare calze troppo lise
come se fosse un modo di abbracciare.
Trascorre il tempo ed ogni cosa cambia,
non il tuo modo d’essere una pietra,
la soglia della casa, l’artificio
che fa di un luogo un simbolo, un altare,
la lacrima di pianto che si muta
in manto di rugiada. Viene il tempo
che tu non ci sarai. Non ci saremo
ma ci saranno ancora lune tonde
e torneranno i voli di farfalla,
e canti nei meriggi di cicala.
Nessuno, più nessuno che ricordi
la vita spesa al lume di una lampada,
le pratiche ordinate nei dossier
e le collane in perle di Murano.
Giornale in mano, innanzi alla tv
la mia pigrizia che ti sta a guardare.
Anche così un amore, anche così.
Da poco insignito del premio nazionale per la poesia dedicato a Luciano Serra, il parmigiano Daniele Beghè, dapprima segnalato al concorso Tapirulan in alcune edizioni, quindi vincitore con il suo “Galateo dell'abbandono” il cui titolo, spiega l'autore, “nasce dall'idea dello stato di abbandono delle nostre periferie, nei confronti delle quali manca qualsiasi rispetto.” Lo sguardo del poeta si rivolge “ai luoghi di transito, di trasformazione e ai non luoghi che connotano questi anni, andando alla ricerca dei processi di passaggio dalla tradizione all'attualità” osserva Briganti. L'interesse partecipe di Beghè, la cui opera presenta una curvatura di tipo civile e etico, è verso la comunità umana che abita nelle periferie urbane, lasciate a un degrado che si mostra in segni tangibili di abbandono così come in simboli usati come arma verso l'altro per costruire distanza, linee destinate a non incontrarsi, asintoti a indicare separazioni:
Parma zona nord est
Non c’è alcun galateo dell’abbandono
nel quartiere artigianale
di via Venezia, dove la città
spezzata dall’asintoto della tangenziale
lascia spazio al silicone annerito
degli orti sociali, alle croci
provocatorie nei cortili,
alle carrozzerie e alle moschee
nei capannoni.
Ma pure in questi scenari desolati, sui quali si stagliano “cataste di legno marcio e lavatrici arrugginite” accade che “dalla galleria come un abbaglio-spiraglio emergono / orti e piante di susine. Ultime cartoline ricordo di un paese ben coltivato.”
Il senso del silenzio e dello stupore, capace di evocare e fermare l'istante, circonda le poesie raccolte in “Divagazioni, quartine”, la silloge del marchigiano Giuseppe Piersigilli (vincitore, a pari merito con Vincenzo Maria Oreggia, dell'edizione 2017 del concorso Tapirulan) le cui poesie, osserva Briganti, richiamano la sospensione rarefatta degli Haiku giapponesi. Alle quartine, simili a “acque tenui e sensibili dalle quali affiorano poche e misurate parole”, è affidata una poesia densa, calibrata, contrassegnata da un dettato scarno e limpido, poesia che ha ricevuto, alla fine degli anni Ottanta, l'apprezzamento di Giorgio Caproni.
Le noci
Nelle case povere di un tempo
le noci si mettevano in solaio
ad asciugare. Un sogno per i giorni
di povertà, di neve…
Parma zona nord est
Non c’è alcun galateo dell’abbandono
nel quartiere artigianale
di via Venezia, dove la città
spezzata dall’asintoto della tangenziale
lascia spazio al silicone annerito
degli orti sociali, alle croci
provocatorie nei cortili,
alle carrozzerie e alle moschee
nei capannoni.
Ma pure in questi scenari desolati, sui quali si stagliano “cataste di legno marcio e lavatrici arrugginite” accade che “dalla galleria come un abbaglio-spiraglio emergono / orti e piante di susine. Ultime cartoline ricordo di un paese ben coltivato.”
Il senso del silenzio e dello stupore, capace di evocare e fermare l'istante, circonda le poesie raccolte in “Divagazioni, quartine”, la silloge del marchigiano Giuseppe Piersigilli (vincitore, a pari merito con Vincenzo Maria Oreggia, dell'edizione 2017 del concorso Tapirulan) le cui poesie, osserva Briganti, richiamano la sospensione rarefatta degli Haiku giapponesi. Alle quartine, simili a “acque tenui e sensibili dalle quali affiorano poche e misurate parole”, è affidata una poesia densa, calibrata, contrassegnata da un dettato scarno e limpido, poesia che ha ricevuto, alla fine degli anni Ottanta, l'apprezzamento di Giorgio Caproni.
Le noci
Nelle case povere di un tempo
le noci si mettevano in solaio
ad asciugare. Un sogno per i giorni
di povertà, di neve…
Autore di racconti, romanzi, sceneggiature e documentari, Vincenzo Maria Oreggia pratica la scrittura poetica “come una forma di sincronicità tra suono e pensiero”. I versi che compongono “La misura degli anni”, nota Briganti nell'introdurre la silloge, “si diffondono discorsivamente nella realtà in una orizzontalità non pacificata” contrassegnata da uno sguardo ironico ed autoironico che produce una presa di distanza tanto da sé quanto dall'oggetto su cui lo sguardo si posa.
Due calcoli
Anche i sentimenti
senza la gravità si alleggeriscono.
Pare che sulla luna siano un sesto
di quel che calcoliamo in terra,
oppure, scienza a parte,
è la perdita degli anni ad alleviare il computo.
Guarda i bambini ad esempio,
guardali assorti la mattina
nella burrasca minore di una semplice partita:
come lievita dall’asse del pianeta,
come spunta la sfera tra le dita,
effetto non terrestre ma stellare,
regalo rimediato lungo il periplo di casa.
Fanno appena le dieci e sullo schermo
terzultimo è l’auspicio di pace in Palestina,
penultimo il premier del sorriso,
poi, mancava, l’impiccato del telegiornale;
destra sinistra e inutili code in capitale,
parabole in declino
sulla fortezza dei tetti prospicienti.
Galleggia qualcosa.
Sul quasi nulla ronzano api.
Insetti domestici vengono a toccarti le dita.
Saltano tra le unghie.
A conclusione dell'incontro, i ringraziamenti sono andati al prof. Briganti, alla associazione Tapirulan, alla biblioteca Guanda per l'ospitalità e a Daniele Beghè per avere promosso un evento che ha permesso ai presenti di cogliere l'impronta viva che fa di ciascun poeta ciò che è:
In ogni cosa viva c'è un'impronta
Segnata a fondo dalla prima età.
S'io non fossi poeta
Sarei di certo truffatore e ladro.
Sergej Aleksandrovic Esenin - "Poesie"
Due calcoli
Anche i sentimenti
senza la gravità si alleggeriscono.
Pare che sulla luna siano un sesto
di quel che calcoliamo in terra,
oppure, scienza a parte,
è la perdita degli anni ad alleviare il computo.
Guarda i bambini ad esempio,
guardali assorti la mattina
nella burrasca minore di una semplice partita:
come lievita dall’asse del pianeta,
come spunta la sfera tra le dita,
effetto non terrestre ma stellare,
regalo rimediato lungo il periplo di casa.
Fanno appena le dieci e sullo schermo
terzultimo è l’auspicio di pace in Palestina,
penultimo il premier del sorriso,
poi, mancava, l’impiccato del telegiornale;
destra sinistra e inutili code in capitale,
parabole in declino
sulla fortezza dei tetti prospicienti.
Galleggia qualcosa.
Sul quasi nulla ronzano api.
Insetti domestici vengono a toccarti le dita.
Saltano tra le unghie.
A conclusione dell'incontro, i ringraziamenti sono andati al prof. Briganti, alla associazione Tapirulan, alla biblioteca Guanda per l'ospitalità e a Daniele Beghè per avere promosso un evento che ha permesso ai presenti di cogliere l'impronta viva che fa di ciascun poeta ciò che è:
In ogni cosa viva c'è un'impronta
Segnata a fondo dalla prima età.
S'io non fossi poeta
Sarei di certo truffatore e ladro.
Sergej Aleksandrovic Esenin - "Poesie"